di Giacomo Mazzocchi

Il rugby giocato ai massimi livelli  è considerato lo sport più spettacolare ed emotivamente  più coinvolgente. Una occasione unica per godersi  l’agonismo estremo di un match di pugilato unito ad una finale dei cento metri corsa con un pallone ovale in mano.

Da questa settimana  gli spettatori di tutto il mondo  televisivo e di sei stadi europei  a Londra, Parigi, Roma, Edinburgo, Dublino e Cardiff (tutti esauriti da mesi) potranno  seguire con passione  (ma anche con  gioiosa sportività e fair play) le 30 partite del Sei Nazioni 2018, un evento per molti versi superiore ad un Campionato del Mondo.

Anche l’Italia  fa parte di questo Gotha da 18 anni con benefici enormi per il movimento. Infatti, il giro di interessi e di denaro  prodottosi nell’Italrugby a partire dal Nuovo Millennio ha consentito a questo sport di fare passi da giganti sul piano organizzativo. Grazie a Sponsor, introiti televisivi mondiali, biglietterie e marketing la Fir ha potuto triplicare il numero di impiegati, impiantare numerose Accademie giovanili dislocate lungo tutto lo Stivale e, soprattutto, impiantare  due “Nazionali” permanenti “(sotto il nome di Benetton e Zebre) dove si fanno le ossa gli azzurri partecipando al PRO14  cui partecipano i più forti club celtici e da quest’anno anche sudafricani.

A raccogliere i frutti di questa superorganizzazione la Fir ha chiamato uno dei massimi esperti: l’Irlandese Conor O’Shea protagonista vincente del processo di sviluppo che in pochi anni ha portato  l’Inghilterra ai massimi vertici del rugby. O’Shea ha chiesto, la FIR ha dato: il “nuovo” CT (dal 2016) ha creato attorno a sé un gruppo di specialisti di assoluta competenza  scovati in tutto il mondo.

Tutto bene? No, al contrario. In questo anno e mezzo l’Italia ha battuto soltanto squadre di secondo livello come USA, Canada e Fiji (a Catania in autunno, perdendo poi a Padova contro Tonga) con un solo momento di gloria: il successo storico (prima volta) sul Sud Africa a Firenze il 19 novembre 2016. Un 20-18 che aveva fatto sognare, un fuoco di paglia che si è trasformato nel “cucchiaio di legno” (tutte sconfitte) dell’ultimo Sei Nazioni 2017.

Perché  l’Italia del Rugby (che ha tutto) non riesce a decollare? Probabilmente perché ha perso la fame. O’Shea è riuscito ad allargare in maniera sostanziosa la rosa degli elementi tecnicamente e fisicamente degni della scena internazionale. L’ambiente azzurro si è arricchito di tante facce nuove talentuose. Poi, però, quando si entra in campo e la battaglia si fa vera, si evidenziano chiaramente  i limiti fatali di questi giocatori, perfetti nel compitino simulato e nei test ma chiaramente inadeguati al grande rugby agonistico dove la differenza la fa il carattere.

Non c’è niente da fare. Il grande giocatore di rugby  deve essere in grado di sublimarsi in campo. Essere eroe. Una forma mentis che ti deriva dalla fame e che un professionista imborghesito ha ormai perso.

In Nuova Zelanda i 155.000 giocatori di rugby (da 8 anni comandano le classifiche mondiali) sono scremati non soltanto dalla tecnica e dal fisico, ma soprattutto dal livello di eroismo: cosa vuol dire eroismo? Metterci la faccia.

Il nocciolo del rugby (soprattutto quello attuale) è avanzare, conquistare terreno in avanti per poter travolgere un avversario che arretra. In Nuova Zelanda ed altrove, non in Italia, il modo per caricare l’avversario e metterlo in difficoltà è aggredirlo portandosi avanti  bassi e con il capo come ariete. Certo, ti puoi fare male.. ma è l’unico modo.

Invece, in Italia continuiamo a vedere troppi caschetti protettivi e troppi avanti che  aggrediscono  offrendo la spalla o la schiena. Morale: non si avanza mai  e l’avversario ha modo di rallentarti  o renderti innocuo.

Diego Dominguez (ci metteva la faccia pur essendo un piccoletto alto 1,74 cm x 75 chili ) realizzò 29 punti e portò l’Italia   a sconfiggere la Scozia (campione in carica) nella partita di esordio al 6 Nazioni del 2000. Dovette ricorrere tre volte al chirurgo plastico per rimettersi a posto i lineamenti e continuare a giocare fino a 36 anni.

Ecco, da questo Sei Nazioni 2018 – iniziato con un sonoro 15-46 contro l’Inghilterra super di Eddie Jones (23 vittorie 24 partite), proseguito con l’ancor più sonoro 56-19 subito a Dublino contro l’Irlanda e con il  34-17 contro la Francia  al Velodrome di Marsiglia fino al 38-14 di Cardiff di domenica 17 marzo –vorremmo scoprire azzurri meno perfettini ma più eroici: siamo fiduciosi.

Professionisti di fatto, dilettanti nello spirito. Non rammolliti dal benessere.

Giacomo Mazzocchi

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